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22 Ottobre 1999

C'era una volta un uomo
che, com'era d'uopo ai suoi tempi,
magno gaudio ricavava
nel possedere tanti oggetti,
anche futili e sfarzosi,
l'importante era possedere,
e stringere quel chissàchecosa tra le mani
e decretarne l'appartenenza.
E quatto quatto trascorreva
i tempi della sua esistenza
in tal maniera così siffatta:
e vivendo per gli oggetti 
e pensando solo ad essi.
Finché un giorno incontrò una lei,
una pulchrissima pulzella,
che il suo istinto stuzzicò
e subito volle possederla,
stringere una parte di lei tra le mani
e decretarne l'appartenenza.
L'avvicinò e fecero conoscenza.
Ed ei ci provò col suo spirito,
e la suggestionò
e provò ad indovinare i suoi desideri
e a raccontare frasi belle
che la facessero legare a lui;
ma subito capì che era una battaglia vana,
perché ogni volta che si avvicinava a lei 
quel che bastava
e, afferrando, stringeva chissà cosa tra le mani,
quel qualcosa rimaneva inafferrabile
e sfuggiva ad ogni suo controllo.
Allora si concentrò sul suo corpo,
ma, per quanto l'accarezzasse
e l'abbracciasse, c'era sempre
un non so che che lo turbava.
Finché un giorno durante l'atto dell'amore
capì che per quanto le afferrasse le mani,
per quanto la baciasse,
per quanto le avvinghiasse le braccia sulle spalle
od intorno ai fianchi,
non c'era possibilità di decretare
alcuna appartenenza,
perché tanto lui la stringeva tra le sue mani
tanto lei lo stringeva tra le sue,
ed entrambi erano un tutt'uno, una fusione
e lui ero lo stesso qualcosa
che cercava di possedere.
L'uomo si disperò di questo fatto,
lui che fino allora aveva posseduto
tutto quello che aveva voluto possedere
e la sua rabbia e la frustrazione
crebbero di giorno in giorno,
sempre di più e ancora di più,
finché un giorno come tanti altri,
mentre le sbaciucchiava il collo,
inconsciamente spalanco le fauci
e le strinse forte forte
e morse
e senza darsi spiegazione 
vide la sua rabbia un po' calare.
Mandò giù il boccone e proseguì,
proseguì colle spalle e poi col seno
e poi le braccia
e poi i fianchi e poi l'addome
e più proseguiva,
più sbranava la sua preda,
e più sentiva che stava diventando veramente sua
e più la sua rabbia si placava.
E venne il momento delle sue gambe,
le sue belle gambe,
poi spolpò finemente i suoi piedi
soprattutto i deliziosi calcagni.
E ritornò a dilaniare le viscere interiori
e risalendo di tessuto in tessuto
ritornò ad addentare al principio della testa.
Masticò per prima la lingua,
dopodiché fu il turno delle guance
che tante volte i giorni precedenti aveva baciato,
insieme alle labbra,
e poi masticò le orecchie,
e gli occhi, che mai come allora
gli erano sembrati più dolci
e infine le cervella.
E succhiandosi le dita,
fatto il ruttino
se ne andò a nanna
e abbracciando il suo cuscino
finalmente felice e soddisfatto
lentamente si addormentò.







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